mercoledì 24 settembre 2014

Da Vittorio, lo street food è stellare


Un incontro insolito, forse impensabile, un atto di coraggio che solo i grandi sanno compiere.

Oppure una naturale conseguenza della ricerca gastronomica, delle eccellenze del nostro territorio o semplicemente del buono.

Non so quale delle due strade abbia seguito la mente creativa di Chicco Cerea - patron del tristellato Da Vittorio -  quando ha ideato Gli artisti dello Street Food 2014, sicuramente uno degli eventi fondamentali dell'anno, ma so per certo che ciò a cui ho assistito ieri sera alla Cantalupa non è stata solo una festa del gusto, bensì una lezione di antropologia culturale purissima e soprattutto un la squillante lanciato alla cieca politica italiana.

Solo i grandi non temono di confrontarsi, e ci voleva uno chef di questa caratura per mostrare come sia possibile - non solo ai grandi maestri della cucina, troppo spesso chiusi nella loro torre - dialogare con la miriade di artigiani del gusto italiani, offrire loro la visibilità che meritano, e ricordare a tutti che paese siamo, che storie condividiamo, che tradizioni solcano la nostra formazione mentale e culturale, e che basta soltanto creare le condizioni affinché tutto il ben di Dio che si produce in Italia sia conosciuto, per avere un successo stratosferico.

Tempo fa qualcuno per esempio aveva avanzato la candidatura di Petrini a presidente della Repubblica, e forse l'idea non meritava di essere presa solo come una provocazione, se in Francia il prossimo Conseil de promotion du tourisme si avvarrà della presenza di Ducasse, Robuchon e Savoy.

Forse chiedere agli chef italiani un parere su come valorizzare veramente il patrimonio enogastronomico italico - ossia trasformare in denaro le risorse! - sarebbe la cosa più sensata, e l'esperimento di ieri sera, anche se statisticamente non probante, ha dimostrato che la gente sa riconoscerne il valore, se chiamata partecipa, e non ci sono più confini-barriera, la diversità regionale diventa l'arma segreta che moltiplica la ricchezza.

Finito il pistolotto politico, va da sé che la sfilza di leccornie stupefacenti, disseminate a bordo piscina, e la bravura degli artigiani invitati a far assaggiare le loro creazioni ha avuto dell'incredibile.

Creazioni che ognuno di essi realizza quotidianamente, in una cornice di normalità, che per una sera - grazie allo sfondo lussuoso della Cantalupa - acquistano prestigio ma soprattutto dimostrano di meritarselo tutto.

Così, dopo lo spritz iniziale, la passeggiata tra le bancarelle può cominciare.



Il primo posto spetta ovviamente alle tipicità locali del bergamasco, così da questo grosso paiolo arriva la polenta a cura della Latteria di Branzi, da condire col fiurit - i primissimi fiocchi di affioramento del siero del latte - e una manciata di noci, per uno street food di antica memoria.

La Latteria di Branzi propone anche le Bésse de Brans, le rifilature delle cagliate messe nelle forme di formaggio Branzi, che vengono poi tolte e quindi non stagionano insieme alla forma, acquisendo un profilo gustativo originale, per uno snack che in realtà arriva da molto lontano.


Dalla Val Brembana si fa un salto agli antipodi, approdando in terra nipponica.

A dire il vero, il Miyabi Restaurant è a Bergamo proprio nei pressi della storica sede del ristorante fondato da Vittorio Cerea, ed è sicuramente il meglio della cucina giapponese in terra bergamasca.

Salmone e tonno sono declinati in diverse speziature e condimenti, a riempire questi aggraziati temaki, anche in versione più elegante, con tempura di gamberi.


Con un altro salto di qualche migliaio di chilometri si atterra in Valpolicella, per scoprire qualcosa di veramente sorprendente.

Di queste carnose fette rosse è facile intuire l'origine suina, e fin qui non ci piove.

Meno semplice capire ciò che il naso - acchiappandone i sentori - ha già intuito: lo zampino degli incantevoli vini veneti.

Questo è il Vinappeso, nato grazie a una certa Isabella, mamma del produttore Walter, che avvolse questo salume con un panno intriso di vino.

Pare comunque che la tradizione di stagionare i salumi a contatto con il vino risalga addirittura al tramonto dell'impero romano, ma comunque stiano le cose, questo prodigio si è ritagliato un ruolo di primissimo piano nell'alta ristorazione e non può lasciare indifferenti tutti coloro che passano davanti alla bancarella.

Superata la scaletta, comincia la discesa lungo lo stivale italiano, con un uno-due tutto partenopeo.


Una pizza fritta, sì, ma che è troppo riduttivo descrivere con queste due sole parole.

Il suo nome è battilocchio, ed è tra i pezzi forti dell'Antica Friggitoria la Masardona di Napoli, di Enzo Piccirillo, il nipote della signora Anna detta 'a masardona, cioè l'ambasciatrice di messaggi segreti.

Accompagnato dal figlio - che oltre a percorrere la tradizione familiare sta comunque seguendo un percorso universitario - con cura descrive a chiunque si avvicini le caratteristiche uniche della sua pizza e, staccando con le dita la sommità del battilocchio, invita per prima cosa a inalarne il profumo dell'impasto.

Fritto in olio di girasole - il migliore per questo tipo di preparazioni - il battilocchio si salda rapidamente formando la sua caratteristica corazza dorata, che cela un cuore goloso di tenera ricotta con stuzzicanti cicoli, ed è una pizza fritta che, una volta mangiata, scompare magicamente dallo stomaco, tant'è delicata.


I tentacoli napoletani sono ben avviluppati qui a Brusaporto, così proprio accanto alla pizza fritta c'è Mario Avallone con la sua Stanza del gusto, un concept finora unico in Italia.

Il cuoco come professione d'amore, la cucina come forma di rispetto per la storia, per il corpo, per ciò che l'esperienza del mangiare lascia nella memoria di ogni essere umano.

Cucinare e mangiare riattivano dinamiche troppo ancestrali per essere ridotte a mero commercio o - al polo opposto - a elucubrazioni artistico-destrutturanti: così la bellezza è una virtù che risiede innanzitutto nello sguardo, o in questo caso nella bocca, mentre oltre alle ranfe del purpo ne sorseggia anche 'o broro.


Il polpo introduce a una carnalità tabù, a quelle che impropriamente ancora chiamiamo frattaglie, e una delle massime espressioni è senz'altro il fiorentinissimo lampredotto dell'Osteria Tripperia Il Magazzino.

A differenza degli altri stomaci bovini, quello del lampredotto non è diffusissimo in Italia, ed è caratteristicamente più grasso, scuro e ovviamente saporito.

Forse fu la lampreda marina a suggerirne il nome, per la forma, per la grassezza o magari per un abbinamento gastronomico.

Il panino viene immerso nel brodo di cottura, mentre il pezzo di trippa viene tagliato direttamente sul pane, di modo che i succhi derivanti dal taglio lo imbevano bene, e altro che bacione a Firenze...


Presenza pesante, quella dello street food di Uliassi che dal 2011 già è impegnato a valorizzare quel cibo da sgranocchiare come fanno i bambini e i ragazzi.

Il panino non è solo con la porchetta ma è di porchetta, e si ha davvero la sensazione di un salto nell'infanzia ad addentarlo.

Fin qui lo stand Ferrari fornisce i calici giusti per il complemento più adatto, ma pochi passi e poche bontà più in là attende serafico e sicuro di sé il Pommery, e scusate se si beveva solo questo.



Con la Sicilia di Tony Lo Coco de I Pupi di Bagheria si conclude il cammino carnale, e non è una chiusura in discesa, se non geografica.

Questa è la stigghiola, anzi, è la testimonianza di che cosa può significare per uno chef lasciarsi ispirare dalla tradizione.

Perché questo piccolo gioiello tradizionalmente si prepara col grasso dell'agnello avvolto dalle sue interiora.

Tony ci ha meditato sopra, finché ha concepito questa genialità, tra l'omaggio e la rivisitazione, usando il tonno avvolto dalla seppia, e sarà street food quanto volete, ma questo è un piatto che lui ha in carta nel suo ristorante.


Sarebbe stato ingeneroso tralasciare la Puglia, che fa subito pensare alle orecchiette.

Queste però si distinguono perché arrivano direttamente dalle mani delle donne del Club delle Orecchiette di Altamura.

L'associazione è nata nel 2011 ed è subito finita sotto i riflettori, perché non solo promuove la tutela del prodotto tipico e dell'arte del fare la pasta, ma si propone anche come centro di produzione.

Oggi le macchine da cucina permettono mirabilie anche in casa,  basta montare il pezzo giusto e il robot tira fuori qualsiasi formato di pasta già pronto.

Queste donne invece, con le sole mani e uno di quei coltelli d'acciaio da tavola, ma proprio di quello che di solito diciamo che neppure tagliano bene, forgiano orecchiette a altri formati e si prestano a insegnare a chi si ferma da loro la complicatissima fattura, che naturalmente loro eseguono come se fossero predestinate a questo mestiere.

E nell'attesa del pentolone, si può pasteggiare a pa' e strinu' oppure sgranocchiare le olive ascolane del Piceno DOP Migliori.


Tra tutti i food il più adatto alla street è indiscutibilmente la pizza napoletana, che anzi nasce esclusivamente in questa forma, detta a portafoglio.

A sfornarle è arrivato Salvatore Salvo - che con suo fratello Francesco aveva già nel maggio scorso dato vita a quest'altro evento eccezionale qui dai Cerea - per aprire una finestra sulla storia della pizza.

Luogo comune errato qui al nord definisce la pizza di Napoli più alta, rispetto a quelle schiacciate-cracker del luogo.

Invece la pizza ai piedi del Vesuvio è sottile e soffice, proprio perché nasce per essere ripiegata in quattro, a libretto, e portata a spasso.

Solo in seguito alcuni fornai ebbero l'occhio lungo e cominciarono a mettere sedie e tavoli, creando così le prime pizzerie.

Più di trecentocinquanta pizze, piegate in quattro e distribuite ad assaggiatori increduli per la bontà e la leggerezza, e i fratelli Salvo incassano un altro trionfo nel loro cammino.



A questo punto chiunque sarebbe sfinito dal piacere, ma oltre l'ingresso della Cantalupa, nella piazzola sottostante, altre bancarelle fanno da sirene per i colpi di grazia.

Gli arrosticini di Castel del Monte (AQ) sono realizzati con le pecore dell'azienda Petronio, e sono un simbolo della ricerca e della salvaguardia di prodotti genuini e di ricette della tradizione che in Abruzzo di certo non mancano.

Lo spiedo di Matteo delizia innanzitutto lo sguardo con questa magnifica punta di petto di vitello che fa la giostra e si abbronza per diventare un concentrato succulento.

Tra la carne e il grasso c'è il rapporto giusto per una degustazione che non ci mette molto ad assumere sfumature da strafoco, e io non ho avuto remore prima nel raccogliere i pezzi con le mani, e poi nel pulire le dita direttamente con la bocca da ogni traccia untuosa o salina, da vero uomo della street.

Vera chicca le miasse di Farinel on the Road, che di strada ne macinano tanta, portando in giro la loro struttura ambulante.

Le miasse sono ottenute con un impasto a base di granoturco, steso sottile su ferri roventi.

Condimenti tipici e indicati, formaggi, salumi, salsicce o prosciutti, che la piastra aiuta a sudare i giusti umori, per un cibo che dalla strada ti fa salire ai piani alti dello sfizio.

Chiude la rassegna salata, e apre quella dolciaria, la piccola ape del LuBar, che delizia con i suoi arancini di riso, e fa sognare con dei cannoli siciliani, purtroppo rimasti nella dimensione onirica perché finiti prima ancora che gran parte dei presenti capisse dalla mappa dove fossero collocati.

Arancino di peso, di sostanza, e di sapore, ma solo per i più tenaci, capaci di arrivare fino a questo punto del percorso, ben sapendo che mancano ancora i dolci.

Perso il treno del cannolo siciliano, passo in rapida rassegna i gelati, la crepe e i krapfen preparati dai padroni di casa, per non farmi sfuggire l'altra guest star tra i dessert: il gelato giapponese di Monaka.

Quattro gusti - tè verde per me - da racchiudere in queste lievi cialde di riso, per un dessert che ha il pregio di non essere stucchevole, la dote della leggerezza e la capacità di rinfrescare dopo un tour de force considerevole.

Una festa, ma non solo: la serata degli Artisti dello Street Food segna un punto di non ritorno, almeno per tutti coloro che credono nel valore storico e culturale del cibo, che pensano che la salvaguardia delle tradizioni sia il primo vero passo verso il nuovo, e che ritengono il dialogo tra diversi, tra alto e basso, tra la materia e lo spirito, l'unica maniera di evolvere.

Il mondo della gastronomia ha cominciato a farlo, e funziona maledettamente bene.

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