venerdì 5 dicembre 2014

Li chiamavano Super Tuscan


A vederli così schierati, a mo' di moschettieri del gusto, della raffinatezza e della gloria vitivinicola italiana riescono a toccare corde profonde.

Sono i quattro Super Tuscan che Alfredo Leoni e Paolo Stefanetti hanno voluto celebrare in una serata irripetibile tra la cucina precisa del M1.lle Storie & Sapori e le bottiglie perfette di Top-Wine.

Come per il cinema, l'annuncio di un cast d'eccezione prefigura un film che quasi certamente farà gridare al capolavoro, così nelle ultime settimane l'attesa per I favolosi anni Ottanta - Un decennio di annate straordinarie è stata vissuta senza alcun dubbio sulla sua riuscita, potendo contare sui primi attori che, negli anni Ottanta, emersero dalla Tenuta San Guido, dalla tenuta Greppo Biondi-Santi e dai Marchesi Antinori.

Quando si pronunciano parole come Tignanello, Sassicaia, Solaia, Brunello Biondi-Santi si ode l'eco del prestigio, il vento della storia del vino italiano, e la detonazione dovuta all'impatto che hanno lasciato e tuttora persiste nel mercato dei collezionisti e degli appassionati di tutto il mondo, disposti a elargire cifre vertiginose pur di accaparrarseli.

Vini che hanno rappresentato il primo grande slancio verso una maggiore consapevolezza tecnica, una seria dichiarazione d'umiltà nei confronti dei cugini d'Oltralpe, prendendone a prestito tipologie d'uva e processi produttivi, e una assunzione di responsabilità nell'interpretare la tradizione senza subirla, soprattutto in un periodo in cui il Chianti era solo bottiglia impagliata e vino rosso alleggerito e allungato da uve bianche per soddisfare la richiesta di mercato.

Fa sorridere infatti leggere sulle etichette di questi capolavori la dicitura vino da tavola, dato che all'epoca non era possibile classificarli altrimenti, poiché, pur prodotti nel Chianti, non ne rispettavano i principi, ed è anche grazie a questa sovversione che si è pervenuti alla classificazione IGT.

Se all'importanza dei Super Tuscan aggiungiamo poi alcune chicche in fatto di Champagne, Sauternes e distillati, e se consideriamo che lo chef del M1.lle ha scelto di tenersi all'altezza delle bottiglie giocando la mossa di un tartufo bianco che non sloggia dalle narici neanche il giorno dopo, il conto è bell'e fatto: cena fenomenale, vino impareggiabile, serata leggendaria.


L'accoglienza è discreta, con un salame di fattura notevole, che il Billiot Brut Réserve sa come esaltare.

Solo sette posti disponibili, nella cantinetta del M1.lle, circondati da bottiglie di altrettanta autorevolezza, che dagli scaffali ci guardano, ed emanano un'aurea positiva, foriera di esperienze degustative felici.

Nella migliore delle cornici, la celebrazione dei grandi toscani di trent'anni fa ha inizio.


La Grande Année Bollinger Brut 2002, pur avendone venti di meno di anni, si è già guadagnato il rango di champagne leggendario.

16 Cru hanno fornito Pinot Noir e Chardonnay - rispettivamente 60 e 40 % - assemblati e fermentati in quercia, prima di andare a riposare per otto anni in bottiglia con sughero.

Chiunque abbia dubbi sulle descrizioni romantiche dei vini e in special modo degli champagne, bevendo questo può capire da dove nascono.

Naso di frutta e mela -soprattutto prendendo un po' di temperatura -, per poi sentire a ogni sorso il classicissimo sapore di pane e burro impreziosito da un sottofondo tropicale.

Acidità impeccabile, senza note amare, elegante nelle caratteristiche, eccitante nell'effetto.

Mentre si fa fatica a trattenere lo stupore per questo champagne, stuzzichiamo il simpatico lecca-lecca di Parmigiano e la tazzina di crema di zucca alla paprika che in questa stagione al M1.lle fanno da benvenuto, ben consci che di là a poco arriverà il primo dei grandi quattro.


Tutto il rispetto dello chef verso la bottiglia che egli sa uscirà per prima si condensa in questa coltre di tartufo che ammanta una tartare generosa nella dose e irreprensibile nella freschezza.

Forse qualcosa in più del rispetto: un vero timore reverenziale verso il grandissimo vino che l'accompagna, e che ha indotto Paolo a pigiare forte sul pedale della materia di primissimo livello.

Il Tignanello Antinori 1982 si può definire il vino della sovversione.

Perché se è vero che il marchese si lasciò ispirare dal lavoro che ormai da tanti anni svolgevano nella tenuta San Guido lavorando alla maniera di Bordeaux, fu lui ad avere l'idea di miscelare il Sangiovese con i Cabernet.

Idea che comportò anche il coraggio di dare un calcio alle uve bianche nei Chianti e a fare il passo verso l'invecchiamento in legno.

Tutto questo era cominciato almeno due lustri prima di questa bottiglia che arriva invece quando la consapevolezza è ormai matura per produrre un vino che segna il tempo e la storia.

E fa ancora più piacere constatare che la marcia in più sta proprio nelle caratteristiche del Sangiovese, nella sua acidità e speziatura, rispetto alla rotondità dei Cabernet che tuttavia lo completano.

Questo bicchiere - diciamolo - dichiara guerra aperta agli altri tre Super Tuscan e mette una serissima ipoteca sul podio del migliore dei quattro.

Al Sangiovese si risponde con le stesse armi, perciò dall'altra parte della tenzone campeggia subito il Brunello di Montalcino Biondi-Santi 1982, che di Sangiovese ne ha il 100 %.

Bottiglia che celebra il centenario, e vino ottenuto da un mosto che ancora se lo ricordano, quelli che c'erano, perché l'annata fu talmente incoraggiante da favorire un'estrazione zuccherina mai avuta prima.

Si percepisce nettamente la dote principale, l'equilibrio tra le note tipiche del Sangiovese e una tannicità e un calore, frutto delle condizioni favorevoli e del lavoro eccellente che ci fu dietro.

La bottiglia ha pagato un lieve principio di ossidazione, senza il quale avrebbe seriamente messo in pericolo il primato del Tignanello.


Il tartufo intanto si assume l'onere di guidare le truppe che arrivano dalla cucina, come un saldo generale a garanzia di qualità.

I tagliolini al tartufo, signori, sono questi, tutto il resto è fuffa inutile.

E non sto a dire nulla sulla prelibatezza del tartufo, che la mano di Paolo Stefanetti diffonde benevola, ma spendo due parole in più per ciò che c'è sotto, ossia una pasta fresca che è stata tirata un minuto prima di calarla nell'acqua, cose che in genere una cucina fa solo se ha una trentina di aiutocuochi, mentre qui non sono mai più di tre.


La materia prima buona è essenziale per fare grandi piatti - riflette a voce alta lo chef - ma bisogna pure stare attenti a non rovinarla.

E lo dice a proposito di questo brasato al Barolo, perché la carne è un campanello di manzo speciale e arriva direttamente da Canneto sull'Oglio, dove Massimiliano Zani ha la sua bottega delle meraviglie.

Con una carne simile - la cui frollatura è stata giustamente portata al limite massimo -  e un Barolo di altezza sublime il piatto ammutolisce, imponendosi per la sua fattura e per una bontà di quelle che saziano.

Al brasato si affianca quello che si può definire senza tema il vino del sogno: Sassicaia 1988.

Fu proprio il sogno di trasformare il territorio della tenuta San Guido in una succursale della Graves - la regione caratterizzata dalla ghiaia - a far nascere l'intuizione del Sassicaia.

Piante e botti che arrivano direttamente da Bordeaux già dagli anni Quaranta, un lavoro più che ventennale per arrivare a fare un vino che sfida la tradizione, le convenzioni, e che ben presto si fa simbolo di una vinificazione libera e ispira anche alcuni tra i più importanti produttori del Chianti Classico, come Antinori.

Questo, insomma, col Tignanello se la gioca, almeno perché senza di lui l'altro non sarebbe neanche venuto in mente ai marchesi.

Sassicaia oggi è veramente una parola magica, fa subito balzare alla mente la ricercatezza, il lusso, la rarità.

Vino braccato, più che ricercato, da ogni angolo del mondo, questo 1988 si distingue per una finezza che - bisogna ammetterlo - da lì in poi lascerà sempre più il posto a una maggiore concentrazione soprattutto dei tannini aggiunti e della rotondità.

Tenuto conto che si tratta di due uvaggi imparagonabili, se non in termini di gusto personale, sul podio ci stanno in due, col Tignanello.

Il seme gettato dal Sassicaia nella creatività dei Marchesi Antinori è prolifico, e così nasce l'altro grande vino a base Cabernet impiantato in Toscana: Solaia 1985.

Vino armonioso, evoluto eppure con margini ulteriori di invecchiamento.

Amalgama perfetta di morbidezza e acidità, alcolicità e tannini pareggiati in un tutt'uno di indicibile finezza.


Il boccone pensato dallo chef non fa che magnificare le caratteristiche del Solaia e sfruttarne le proprietà.

Un uovo al tegamino che il tartufo innalza così da confermare la felice mano in fatto di abbinamenti.

Approdiamo così al dessert con curiosità, perché sappiamo che cosa bagnerà i bicchieri e ci interroghiamo su come ne verranno a capo in cucina.


Se il tartufo fa pensare al Piemonte, lì restiamo e non solo col pensiero, grazie alle nocciole di un semifreddo tanto buono quanto equilibrato, con un gioco di croccantezza nel crumble addizionato al pane.

Maestoso, accanto al dessert, il Sauternes Château d'Yquem 1979, vi proietta la sua ombra benefica.

I riverberi di luce aranciata trovano corrispondenza nei guizzi allo zafferano che, anche dopo averlo mandato giù, risalgono nella testa, senza sbavature.

È come se per questo Sauternes il destino avesse escluso qualsiasi possibilità di deterioramento rendendolo infinito.

Qui dovrebbe finire il programma della serata, ma andare oltreconfine ci piace, così si torna alle origini.

Dallo champagne si era partiti, e allo champagne si torna.

Dopo il réserve di partenza, da Billiot si gusta anche il Millésime 2008.

Una versione che conferma e sviluppa la già acclarata bontà di quello con cui si erano aperti i giochi.

Uno champagne che continua a stupire per un equilibrio raro.


Dicembre è il mese del Natale, così lo chef ci saluta a base di panettone e zabaione, a conferma di una serata di festa che ci ha portato regali incredibili dalla Toscana e oltre.

Proprio da sotto un ideale albero natalizio arriva un regalone che rischia di mettere a tacere tutti i sorsi avvicendatisi fino a ora.

Fine pasto, zona distillati, si estrae un favoloso Macallan 1959, la bandierina sulla vetta più elevata.

Finezza e complessità, in un whisky che ha serbato le virtù della maturazione in legno di ciliegio, con sprazzi agrumati e un'eco di anice stellato fuori dal comune.

Se a questo aggiungiamo il classico sentore affumicato dei single malt delle Highland - pur non essendo stato affumicato a torba - perveniamo a un whisky che già cinquant'anni fa doveva essere spettacolare, mentre oggi dalla valigetta dello scrittore ogni aggettivo estratto appare inadeguato.

Assaggi così portentosi si conservano per sempre nella memoria e nel cuore.

Poi si può anche strafare, e far comparire un V.O. Blanc de Blancs Extra Brut Grand Cru Jacques Selosse proprio per non lasciare nulla di intentato.

Vino che nasce grazie a procedure ferree, con tre annate differenti, tre spostamenti delle bottiglie in cantina - con rimescolamento dei lieviti - e senza dosaggio dopo la sboccatura, perciò viene raboccato con lo stesso champagne già prodotto in precedenza.

Pur grandissimo, paga forse la collocazione in coda alla serata, mentre la sua mineralità avrebbe bisogno - oltre che di un tempo maggiore dopo la sboccatura - del supporto di bocconi calibrati.


Lo scaglione di bottiglie, come vestigia di un'irripetibile occasione per il palato, ha un che di monumentale.

Ci si congeda come testimoni di un evento inestimabile, colmi di ammirazione per i creatori di queste meraviglie, e con un appetito rinnovato verso altre peripezie del gusto, per reimmergersi in quell'incanto che solo vino e cucina di valore sanno materializzare.

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