lunedì 15 giugno 2015

Gourmet in trasferta: la giornata del pasticciere Camillo

La metro m'ha fregato.

Pensavo aprisse prestissimo, permettendo a coloro che lavorano a cavallo tra la notte e l'alba di raggiungere le proprie postazioni, e a me di unirmi a loro.

Invece, quando arrivo a Vico Acitillo trovo il regno delle dolci creazioni in pieno fermento.

Camillo mi accoglie nel laboratorio della sua pasticceria per raccontarmi e farmi vivere la sua giornata da pasticciere, il ritmo che a volte non sa che cosa voglia dire rifiatare, il pensiero lungimirante nel calcolare tante ore prima il risultato che si raggiungerà tante ore dopo, il caldo naturale di questa imminente estate, unito al caldo artificiale dei forni e a quello circostanziale di quattro mura non troppo ampie, con altri due collaboratori e la mia curiosità, per un totale di quattro bocche e otto polmoni a dividersi l'aria.

Saluto veloce, caffè che arriva dal bar in una bottiglietta di vetro, riciclo di succhi di frutta, come solo a Napoli succede, e la dolce arte prende vita.



E si parte subito da un'alchimia, sostanze nate separate che si fondono creando qualcosa che non è più solo la somma delle parti, ma un'amalgama che va oltre, nella direzione del gusto.

Per il croissant del mattino, la pasta per brioche e la pasta sfoglia aderiscono, i rulli le fondono finché non c'è più distinzione, e agli alveoli tipici della brioche si sovrapporrà un principio di sfogliatura leggera.

In questa semplice addizione tra brioche e sfoglia si condensano secoli recenti di storia, dalla nascita delle brioche austriache alla contaminazione francese a base di burro che portò ai veri e propri croissant, il tutto avvenuto e compiuto a ridosso del XIX secolo.

Ma Napoli è città di ascendenza austriaca, perciò a prevalere nei croissant, anzi nei cornetti, è la matrice della brioche.


Geometria empirica, la mano disegna con la grossa lama i triangoli, e quasi nel baricentro dalla sacca prende forma una noce di crema pasticciera, a volte con l'aggiunta di amarene.

Le dita fanno scorrere il rotolino fino alle giunture col palmo, ma le mani sembrano quasi non toccare la pasta.

Pochi minuti, inversamente proporzionali alla quantità di pezzi pronti per entrare in forno.

Ora, quando si parla di pasticceria giustamente, come il cane di Pavlov, produciamo una salivazione già pronta a disciogliere gli zuccheri.

E tuttavia, da sempre, dagli albori di quest'arte, la distinzione tra fornaio, panettiere e pasticciere non era così delineata.

Le prime forme di dolciumi registrate non sono altro che pani arricchiti, e non c'era ancora la collocazione oraria dei vari prodotti, che oggi ci fa pensare in automatico che una brioche si mangi a colazione, un rustico alle undici del mattino, un trancio di pizza a pranzo, e così via.

Bisogna aspettare almeno gli arabi nell'alto medioevo per registrare una prima grande ripartizione dei prodotti da forno, distinti in due grandi famiglie-ombrello, quella salata e quella dolce, visto che la proficua invasione portò nel nostro stivale la canna da zucchero, gli agrumi e moltissime spezie e frutta secca.

Pasticciere e fornaio, dunque, sono e restano due sfumature dell'anima di un tale artigiano.

Per questo Camillo e la sua squadra, anche sono appena le sette e un quarto, sparano il colpo di partenza per una sfilza di leccornie salate destinate a un catering che alla sera, a quanto si vede uscire dalle mani e dai forni, farà felici non poco i destinatari.


La pasta per la pizza, ben distesa in teglie quadrate, è pronta ad accogliere tra le migliori farciture tipiche della rosticceria e della cucina partenopea.

La scarola o le melanzane sono ripieni orgogliosi della cucina locale, ma c'è anche spazio per la parigina, pizza con pomodoro, prosciutto e latticini, sul cui nome ovviamente si può congetturare a lungo, purtroppo in una ridda di ipotesi differenti e forse inconsistenti.

Pare infatti che, a dispetto del toponimo, sia una creazione del tutto autoctona della provincia di Napoli e nemmeno troppo datata.


Però parigina è il nome con cui è conosciuta, forse perché di derivazione francese è la stessa sfoglia con cui le pizze vengono ricoperte, dopo attenta foratura per impedire rigonfiamenti sgradevoli.
La storia gastronomica ai piedi del Vesuvio non può prescindere ovviamente dalla lunga esperienza borbonica, per questo anche nell'altra preparazione in corso d'opera ritroviamo le medesime origini.

Danubio, danubiana, brioche al pizzico, fatta sia dolce che salata, questa sorta di torta, che in realtà si compone di tante palline farcite separatamente, da staccare con le mani, è attendibilmente nata a opera del primo Scaturchio, per influenza diretta di una parente di Salisburgo.

Nel vederla, mi tornano alla mente le innumerevoli cerimonie alle quali sottostavo da bambino e ragazzo, tra battesimi, comunioni, cresime e matrimoni la cui noia era affogabile in manciate di Danubio, morbido e fragrante.


Il servizio per la serata si completa con una sfilza di pizzette meticolosamente rifinite di mozzarella una volta uscite dal forno, per uno scioglimento lento, anzi, succulento.


Il mondo della rosticceria salata napoletana è molteplice, e se le pizzette costituiscono una variante non solo dimensionale delle sorelle maggiori delle pizzerie, ecco la versione mignon, o comunque ridotta, del mitico casatiello pasquale, ossia il panino napoletano.

Le mani dei tre componenti della squadra armeggiano rapide tra le attrezzature e i tavoli, tra le ciotole e le spatole, e non fai in tempo a vedere completato un lavoro che già al tuo fianco se n'è avviato uno nuovo.

Visto che ci stiamo muovendo nell'ambito del salato, Camillo apre un altro capitolo che per me costituisce un ulteriore tuffo negli anni addietro.


Il rustico è il classico azzardo ben riuscito, che sconfina verso territori di puro piacere, e nel tornare dalla stazione a casa mi fermavo apposta laddove sapevo di trovarne di sublimi.

Alla pasta frolla esterna, dolce, fa da contrappunto la farcia a base di ricotta, salame, formaggio e uova.

Il guscio si tappa con altrettanta pasta e quando esce dal forno abbaglia la vista e piroetta nel naso, e i denti devono passare attraverso la divina friabilità dell'involucro per accedere alla morbidezza voluttuosa del ripieno caldo.


In un nonniente si sconfina dall'universo salino a quello zuccherino, anche se la tecnica di confezione è la stessa.

Dal rustico al pasticciotto dolce il passo è corto, e al posto di ingredienti da salumeria troviamo crema pasticciera e amarena, con un effetto piacevolmente ridondante per un altro grande pezzo del repertorio della pasticceria non solo partenopea.

Archiviata la gran parte della preparazione del catering salato e della vetrina al pubblico che tra un paio d'ore inizierà a subire l'assalto dei passanti, Camillo e i suoi tornano a mettere braccio ai dolciumi.


E visto che non sono ancora scoccate le otto, qualche bel vassoio di graffe - ordinate apposta da alcuni clienti - ci sta veramente bene.

Con la benedizione della fornaia austriaca Veronica Krapf, furono prima i fornai e i pasticcieri alto-atesini a riprodurre queste famose frittelle che giustamente ben si abbinano a confetture di ogni tipo.

Le ciambelline ben lievitate fanno il bagno nell'olio bollente e si asciugano su spiagge di zucchero semolato, non aspettando altro che sciogliersi sotto il palato dei fortunati che l'assaggeranno.

Dal cognome della illustre fornaia parte la discendenza dei nomi krapfen e graffa, che non attecchì solo nel capoluogo campano, anzi, forse la bomba centroitalica - per il fatto di essere ripiena - è ancora più vicina all'originale, ma la graffa ci mise poco a diventare un dolce identitario nella capitale delle due Sicilie.


Non è un caso se fino a tutto il XX secolo la pasticceria austro-ungarica è stata considerata la massima vetta dolciaria.

Qui è direttamente la bandiera della Prussia, con le ali dell'aquila, ad aver ispirato la forma di queste sfoglie, dette appunto prussiane, o almeno ad aver fatto balenare l'idea del loro nome.

La pasta sfoglia viene ripetutamente stesa nello zucchero semolato, finché esso non diviene cellula stessa dell'impasto, affinché possa caramellare dall'interno all'esterno, mentre gli strati di pasta si distaccheranno per la dilatazione del calore.

Impressionante e invitante il modo in cui le rondelle ricavate dal rotolo, e disposte nella teglia quasi schiacciate a bastoncino, dilaghino minuto dopo minuto, fino a occupare dieci volte la propria area di partenza, ringonfiate dall'aria calda, e perfettamente abbronzate grazie all'azione dello zucchero.


Lavorazione analoga per la cosiddetta francesina, che secondo alcuni nacque proprio come contraltare della prussiana, per fare il verso alla battaglia sul fiume Mincio del 1814, nella quale i francesi ebbero la meglio sugli austriaci, e che non a caso è più ricca, grazie a un ripieno di crema e amarena, rispetto alla sua rivale, ma anche questa è una classica ricostruzione a posteriori, come per molte altre invenzioni gastronomiche.

Più interessante ancora, nella francesina, oltre alla lavorazione simile alla prussiana - la pasta è ridistesa più volte fino ad assorbire lo zucchero - è la creazione delle forme, che ricorda in parte quella delle sfogliatelle ricce.

Il rotolo di pasta si affetta in dischi spessi, avendo l'accortezza di non far rientrare le estremità del rotolo, altrimenti si avrebbero dischi senza il centro.

Ogni rondella è schiacciata dal mattarello, e Camillo sceglie con cura il lato giusto da lasciare all'esterno, affinché anche l'estetica svolga la sua egregia funzione.


A ridosso delle nove del mattino, si approda nella più piena napoletanità, con una carrellata di sfogliatelle, dolce sul quale ogni tentativo di ricostruzione storica diventa un labirinto senza uscita.

Tutte le storielle concordano sul fatto che nel convento di Santa Rosa da Lima a Conca dei Marini, nel tardo XVII secolo o in quello successivo - tanto per dire la precisione di queste storie - la felice inventiva di una suora abbia fatto nascere questo ibrido tra la sfogliatella riccia come la conosciamo oggi e la cosiddetta Santa Rosa, stesso involucro, ma con crema pasticciera.

Poiché siamo il paese dei furboni, pare che un non ben precisato cuoco-oste-pasticciere-non-si-sa-cosa partenopeo abbia, per così dire, rubato la ricetta, trasformandola e vendendola come sua creazione in città.

Da qui, si passa a identificare il furbo fattore del dolce con il fondatore di uno dei due più famosi laboratori di sfogliatelle di Napoli, che avrebbe anche esagerato inventandosi la variante frolla.

Come mai poi esista un'altrettanto storica variante abruzzese, con un ripieno totalmente differente e poco affine a quello napoletano, non fa che infittire l'enigma.

La verità è che per queste storie continua a non esserci alcuna prova sicura, probabilmente perché non serve davvero, e nulla cambia ai fini del piacere di chi gusta questi meravigliosi dolci.

Dopo aver cotto e fatto raffreddare la semola, la squadra di Camillo crea l'impasto definitivo con la ricotta, che i sentori di agrumi e i canditi vanno a completare.

E qui ci perdiamo in parole di rammarico, perché il candito per eccellenza della tradizione, la zuccata, purtroppo non viene quasi più usato, nemmeno nella pastiera, si tollerano a malapena quelli di cedro, e ancora vanno le arance, ma il gusto del pubblico è stato devastato da più di mezzo secolo di brioscine confezionate al cioccolato, tanto che Camillo non esita ad ammettere di vendere molti più panettoni senza canditi e al cioccolato di quelli secondo la tradizione.

Per adesso, comunque, la sfogliatella pare resistere, e se per la frolla basta creare l'involucro, dorarlo con l'uovo e portarle a cottura come normali pasticcini, per la riccia le cose si complicano.


La preparazione del rotolo di pasta è estremamente complessa, non si tratta di una normale sfoglia, le fasi della lavorazione sono molteplici, il grasso è quello del maiale, e tutta la complicazione della procedura punta a ottenere strisce di pasta lunghe decine di metri che, una volta arrotolate e tagliate a rondelle, garantiranno una sfogliatura dei tappi - così si chiamano i coni di pasta ricavati - precisa, tanto da poter distinguere e contare, piega su piega, ogni giro di sfoglia attorno al ripieno.

La rondella si schiaccia con i pollici, con un movimento centrifugo, poi il futuro cono si fa ruotare facendo perno sul suo centro attorno alle dita medie, e in meno di sette secondi, il tappo è pronto a ricevere il ripieno.

Simpaticissimo siparietto, tra Camillo e il suo aiutante, che preferisce farcirle al cucchiaio mentre il capo se la prende più comoda con la sacca, e prima della nove e mezza, drappelli di sfogliatelle sono pronti a invadere le placche dei forni.

E con questa risata mi rendo conto solo adesso, dopo circa tre ore di lavoro alle quali non appartiene il concetto di sosta, che il clima è sempre sereno, addirittura divertito.

In pochissimi metri quadri di laboratorio, prepotentemente occupati da un tavolone centrale e fortificati da forni, frigoriferi e macchine, Camillo e i suoi due collaboratori - alti il doppio di lui - continuano a danzare, riuscendo a passare da un angolo all'altro, sempre a contatto con placche roventi, impasti delicati, ingredienti da lavorare in fretta per non rovinarli, eppure continuano, quasi volteggiano sfiorandosi ma senza ostacolarsi.

Affiatati e capaci di guardare nella stessa direzione, per queste prime tre ore, e per le altre della giornata che seguono, non solo oggi, ma ogni santo giorno.

Appassionati da un mestiere faticoso, di grande responsabilità, ma che coniuga la dimensione artigianale e quella artistica, dove i sensi hanno la meglio, non solo il gusto, ma anche gli altri quattro, i colori degli ingredienti e i profumi ora decisi e ora delicati, persino i suoni delle attrezzature fanno musica, come le bolle delle farce che le mani rompono impastando e mescolando, e il tintinnare di ciotole e utensili che scandisce ogni creazione.

Questa è la giornata del pasticciere, e ogni cliente che si ferma davanti alla vetrina di Camillo dovrebbe riflettere sulla differenza tra il costo dei dolci e della rosticceria - determinati dal mercato - e il valore aggiunto della cura e dell'energia profuse ogni giorno nel laboratorio di un artigiano come lui, che a ogni alba si sveglia con una missione ben chiara, nella testa e nel cuore: far prendere vita ai nostri sogni più dolci.

Pasticceria De Michele
Vico Acitillo 110/112
80128 Napoli
tel. 081 5799596

Nessun commento:

Posta un commento