martedì 17 gennaio 2017

Noter de Berghem: la casöla del santo


Non sappiamo se Sant'Antonio Abate arrivò mai ad assaggiarla, ma quel che è certo è che dal Ticino all'Oglio, il 17 gennaio è il giorno della casöla.

Il mitico piatto lombardo, comunemente identificato come milanese, è in realtà ben radicato in buona parte della Lombardia e si declina in modo differente a seconda delle condizioni del luogo di preparazione.

Se però, dalla provincia di Milano a quella di Bergamo cerchiamo il tratto comune, ecco che lo ritroviamo nella data del 17 gennaio, dedicata a Sant'Antonio Abate, nella quale si annodano diversi fili religiosi, culturali, antropologici e non ultimo culinari.

Al santo, che nacque e morì in Egitto, la sorte ha infatti con ironia riservato il ruolo di santo del freddo, della neve, del pieno inverno, associato al giorno entro il quale i maiali vanno uccisi e macellati.

Non a caso, negli ambienti rurali italici, il 17 gennaio è lo spartiacque tra le religiosissime festività natalizie e le profanissime scorribande carnevalesche, anzi, carnascialesche, con lo scialo delle abbondanti carni da consumare.

Poiché da Sant'Antonio Abate prendono il via tutti i movimenti monastici, alla sua figura venne associato il maiale, allorché ai monaci antoniani e poi agli altri ordini venne concesso il loro allevamento e consumo a partire dall'undicesimo secolo.

L'idea che il maiale rappresenti il maligno, le tentazioni carnali e il sudiciume satanico è un'interpretazione successiva, contraddetta tra l'altro da tutti i maiali rappresentati nell'iconografia del santo, maialini che di satanico non hanno alcunché.

Ovviamente, i monaci fecero presto a conferire l'incarico di allevare gli animali ai vari contadini nei dintorni dei monasteri, e furono questi ultimi a sviluppare nel tempo la preparazione delle carni ricavate.

Arrivati al 17 gennaio, dunque, bisognava non solo ammazzare questi animali, ma sbrigarsi a consumare tutto ciò che non era possibile insaccare o mettere sotto sale, perché si tratta di un tipo di carne dal veloce deperimento.

Per questo, la preparazione della casöla, così come la bollitura delle ossa del porco, sono tuttora rituali in queste zone e in questi giorni di freddo intenso.

E dico casöla e non cassoeula proprio per rimarcare, sin dal livello fonematico, la peculiarità della casöla bergamasca rispetto alla cassoeula milanese o comunque più occidentale dell'area in questione (e in effetti la pronuncia bergamasca, oltre a non marcare la s, tende verso il suono u, a differenza del milanese che scivola verso la e).

Perché ai piedi delle Orobie la casöla si fa esclusivamente con le costine e gli insaccati, cotechini o salamini, mentre la cassoeula milanese di solito prevede l'utilizzo di piedi, cotenne, orecchie e muso; in definitiva, il piatto sembra derivare da due versioni più antiche, una povera a base di cotenna e verze, l'altra più ricca che contempla addirittura carni avicole.

Confrontando le diverse ricette, si nota la differenza tra quelle che prescrivono di far cuocere prima la verza per poi aggiungere le carni, e quelle che invece raccomandano di unire la verdura solo dopo aver rosolato la ciccia: chi ha ragione?

Un motivo di questa differenza sta nella famosa regola della casöla, in base alla quale andrebbe usata solo la verza che ha preso il gelo, perché ne esce più dolce e tenera; così, le ricette che suggeriscono di partire dalla verza, prolungandone dunque la cottura, sono probabilmente retaggio di una preparazione con verze precoci, mentre le altre sarebbero più indicate per la verza brinata.

Sta di fatto che la verza ne deve uscire fondente, per cui il tempo di cottura sarà talmente prolungato - quanto incalcolabile - che anche se rosoliamo prima la carne l'effetto caramellizzato scompare del tutto per l'azione della lunga cottura tra le foglie umide.

Che la si chiami casöla o cassoeula, che la si faccia con le costine, i cotechini, i salamini o tutti i meravigliosi "scarti" del porco, che si usi verza precoce o brinata, e soprattutto che la si faccia il 17 gennaio o per tutto l'inverno - come faccio io! - il rito deve continuare, perché con la casöla non si tratta solo di cucinare, ma di testimoniare l'importanza e la storicità di una cultura intera.

lunedì 2 gennaio 2017

Ristorante Odissea, il sapore del nostos


Quando un ristorante etnico è capace di aprire davvero un varco bidimensionale e farti passare dal luogo in cui sei seduto a quello dal quale prende origine, puoi dire di aver fatto una bella esperienza.

Questo discorso però, nel caso di un ristorante greco, si tinge di sfumature ulteriori, perché l'uomo greco porta impresso nel suo codice genetico il dolore del viaggio, la nostalgia, il male per il nostos, lo stare lontano dal luogo natìo, la brama del ritorno, le avversità che lo ritardano e a volte l'impossibilità di realizzarlo.

Non a caso, a Bergamo, si è scelto il nome di Odissea per questo ristorantino che annoto nel taccuino dei luoghi più toccanti e silenziosamente piacevoli in cui sostare.

L'Odissea, infatti, è solo l'ultimo dei nostoi, dei viaggi di ritorno degli eroi greci dopo la guerra di Troia, narrati appunto nell'omonimo poema andato perduto, così da rendere irrealizzabile il nostos, il ritorno, nonché il racconto dello stesso tornare a casa, e gioire.

Ecco dunque il canto, un canto venato di afflati nostalgici, all'esule greco non resta che cantare il ricordo, il desiderio, la rievocazione di ciò che sta inciso nella memoria e che, nel ripetersi di gesti, parole, pensieri - di cui anche la cucina è fatta - si spera di poter rivivere.

Questo è il senso che il ristorante Odissea assume, non soltanto il ristorantino etnico per diversificare l'offerta e acchiappare clienti esterofili o studenti di lingue, ma la creazione di un luogo in cui riconoscersi, dove chi mette mano ai fornelli è originario di quella terra così come tutti i prodotti utilizzati e le ricette proposte.